lunedì 14 marzo 2016

UNA SCOMODA VERITA'

A volte si va al cinema per passare due ore spensierate, altre perché ti ci hanno trascinato e alcune per ricevere un gran bel pugno nello stomaco.
Il caso Spotlight ha fatto man bassa di premi Oscar quest’anno, miglior film e miglior sceneggiatura i più importanti, dunque valeva la pena andare a curiosare per capire le ragioni di questo successo.
Questo ciò che è accaduto.
SI comincia con i soliti venti minuti di pubblicità, quelli che alla fine ti fanno dimenticare che ore sono e che film sei andato a vedere, poi finalmente buio, fin dalle prime battute si capisce subito che siamo di fronte a un film serio, quasi vecchio stampo, come non se ne vedono più molto spesso in circolazione. Entriamo nella redazione del Boston Globe, e conosciamo subito i componenti di una squadra speciale d’assalto giornalistico, che cura la rubrica chiamata appunto Spotlight. Questo gruppo si occupa di casi scottanti, di indagini investigative vere e proprie che si concludono con una serie di reportage diluiti nel tempo.
Nella redazione arriva un nuovo direttore, che punta subito l’attenzione su un caso di pedofilia avvenuto molti anni prima e che pareva coinvolgere un prete. Da questo spunto i giornalisti del gruppo cominciano le loro indagini, accompagnati da molto scetticismo e aspettandosi un caso isolato di brutta cronaca. Con l’avanzare delle indagini cominciano a spuntare altri testimoni, vittime e documenti che porteranno alla luce la scioccante verità: non solo non si trattava di un caso isolato, ma ci si trovava davanti a un vero e proprio sistema che negli anni ha sistematicamente coperto decine e decine di casi di molestie e udite udite, sembrava che al vertice di questa organizzazione di copertura ci fosse  addirtittura l’attuale vescovo di Boston.
Senza andare oltre si arriva a un finale – non finale- uno di quelli che per intenderci ti lascia molto l’amaro in bocca.
Finito il film, a parte la nausea dovuta all’argomento, le mie riflessioni sono state che trattasi di un film molto ben strutturato, quasi didascalico, senza fronzoli e con due straordinari protagonisti, Marc Ruffalo e Michael Keaton. Tutto è narrato quasi come documentario, con poche scene realmente emozionanti, e l’impressione è che sia stato un effetto voluto, perché più il film si avvia alla conclusione più l’intensificarsi della conoscenza di fatti realmente accaduti basta e avanza a lasciare davvero una brutta sensazione. Niente Hollywood, niente prese di posizione, semplicemente i fatti, e questo basta.
Un bel film dunque, ma che forse non meritava l’Oscar come miglior pellicola dell’anno. Forse perché in diretta concorrenza c’erano titoli con , se vogliamo, un grado di innovazione maggiore, come The Revenant, tanto per citarne uno. Ma appunto, ogni cosa a suo tempo, e visto che questa è stata una delle edizioni degli Oscar più politicizzate non meraviglia la scelta per un film che tocca davvero uno dei tasti dolenti della nostra società benpensante.
Se questo sforzo sia stato utile a far riflettere un po’ di più e scuotere un po’ le coscienze, questo non è dato saperlo, ma ben vengano prodotti di questo genere, alla faccia del cinema demenziale e autoreferenziale degli ultimi tempi.