A volte si va al cinema per
passare due ore spensierate, altre perché ti ci hanno trascinato e alcune per
ricevere un gran bel pugno nello stomaco.
Il caso Spotlight ha fatto
man bassa di premi Oscar quest’anno, miglior film e miglior sceneggiatura i più
importanti, dunque valeva la pena andare a curiosare per capire le ragioni di
questo successo.
Questo ciò che è accaduto.
SI comincia con i soliti
venti minuti di pubblicità, quelli che alla fine ti fanno dimenticare che ore
sono e che film sei andato a vedere, poi finalmente buio, fin dalle prime
battute si capisce subito che siamo di fronte a un film serio, quasi vecchio
stampo, come non se ne vedono più molto spesso in circolazione. Entriamo nella
redazione del Boston Globe, e conosciamo subito i componenti di una squadra
speciale d’assalto giornalistico, che cura la rubrica chiamata appunto
Spotlight. Questo gruppo si occupa di casi scottanti, di indagini investigative
vere e proprie che si concludono con una serie di reportage diluiti nel tempo.
Nella redazione arriva un
nuovo direttore, che punta subito l’attenzione su un caso di pedofilia avvenuto
molti anni prima e che pareva coinvolgere un prete. Da questo spunto i
giornalisti del gruppo cominciano le loro indagini, accompagnati da molto
scetticismo e aspettandosi un caso isolato di brutta cronaca. Con l’avanzare
delle indagini cominciano a spuntare altri testimoni, vittime e documenti che
porteranno alla luce la scioccante verità: non solo non si trattava di un caso
isolato, ma ci si trovava davanti a un vero e proprio sistema che negli anni ha
sistematicamente coperto decine e decine di casi di molestie e udite udite,
sembrava che al vertice di questa organizzazione di copertura ci fosse addirtittura l’attuale vescovo di Boston.
Senza andare oltre si arriva
a un finale – non finale- uno di quelli che per intenderci ti lascia molto l’amaro
in bocca.
Finito il film, a parte la
nausea dovuta all’argomento, le mie riflessioni sono state che trattasi di un
film molto ben strutturato, quasi didascalico, senza fronzoli e con due
straordinari protagonisti, Marc Ruffalo e Michael Keaton. Tutto è narrato quasi
come documentario, con poche scene realmente emozionanti, e l’impressione è che
sia stato un effetto voluto, perché più il film si avvia alla conclusione più l’intensificarsi
della conoscenza di fatti realmente accaduti basta e avanza a lasciare davvero
una brutta sensazione. Niente Hollywood, niente prese di posizione, semplicemente
i fatti, e questo basta.
Un bel film dunque, ma che
forse non meritava l’Oscar come miglior pellicola dell’anno. Forse perché in
diretta concorrenza c’erano titoli con , se vogliamo, un grado di innovazione
maggiore, come The Revenant, tanto per citarne uno. Ma appunto, ogni cosa a suo
tempo, e visto che questa è stata una delle edizioni degli Oscar più
politicizzate non meraviglia la scelta per un film che tocca davvero uno dei
tasti dolenti della nostra società benpensante.
Se questo sforzo sia stato
utile a far riflettere un po’ di più e scuotere un po’ le coscienze, questo non
è dato saperlo, ma ben vengano prodotti di questo genere, alla faccia del
cinema demenziale e autoreferenziale degli ultimi tempi.